“Nel disagio del momento presente non si può avere il distacco prospettico sufficiente
per un giudizio sulle più recenti proposizioni architettoniche.
L’economia dei consumi disancora le idee: nostalgie stilistiche, revivals, nuove accademie, fantascienza,
styling, design a ruota libera: è una produzione vastissima, subito bruciata, e sono poche le cose che resistono”.
Questo amaro ma profetico giudizio è di Franco Albini,
uno dei grandi protagonisti dell'architettura italiana del Novecento,
qui chiamato a scrivere una testimonianza per il catalogo di una mostra tenuta al Museo Poldi Pezzoli di Milano nel 1972.
A quell’epoca l’architetto ha 67 anni – Albini infatti è nato nel 1905 a Robbiate, in Brianza –
e sta attraversando un periodo difficile della sua carriera.
Il Ministero della Pubblica Istruzione lo ha appena sospeso dall’insegnamento
presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, insieme agli altri colleghi:
il durissimo provvedimento (poi ritirato) è la risposta alle tensioni provocate dalle richieste di rinnovamento dei programmi didattici,
richieste che accomunano docenti e studenti e che culminano nel clima di agitazioni del Sessantotto.
È un duro colpo per la Scuola milanese,
ma soprattutto, per gli architetti della generazione di Albini (come Piero Bottoni e Carlo De Carli),
diventati professori quasi per caso e poi coinvolti nell’impegno pedagogico, significa la fine di molte speranze.
È dal 1949 che Albini affianca l’attività professionale a quella di docente,
da quando cioè Giuseppe Samonà, direttore dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia,
lo invita a coprire la cattedra di Architettura degli interni, arredamento e decorazione.
Ma dopo quindici anni di insegnamento a Venezia,
insieme agli amici Ignazio Gardella e Carlo Scarpa, Albini si trasferisce al Politecnico di Milano,
per rispondere all’appello degli studenti della scuola dove si è laureato
e anche per restare più vicino al lavoro professionale.
Siamo nella seconda metà degli anni Sessanta.
Lo studio di Franco Albini e Franca Helg (sua collaboratrice a partire dal dopoguerra) è alle prese con grandi incarichi,
tra i quali citiamo le Nuove terme di Salsomaggiore o l'edificio per uffici della Snam a San Donato Milanese.
Nella Facoltà di Architettura di Milano, l’atteso maestro sceglie di occuparsi della progettazione di edifici a grande scala.
L’argomento è difficile per chi come lui si è sempre dedicato con grande passione all’architettura degli interni e al disegno dei mobili.
Ma i suoi celebri silenzi, che gettano nel panico studenti e collaboratori,
nascondono questa volta un po’ di disagio e molta stanchezza.
Albini assiste al tramonto delle eroiche “battaglie per l’architettura moderna”,
combattute tra le “difficoltà politiche” degli anni Trenta e le illusioni degli anni Cinquanta.
Di quel periodo di grande fervore creativo, speso intensamente tra lo studio milanese e la scuola veneziana,
gli resta solo il malinconico ricordo.
Ma è questo l’arco temporale su cui concentreremo la nostra attenzione, per rivelare l’originalità del suo pensiero
nel solco tracciato con i sodali della Scuola di Milano, da Ignazio Gardella a Ernesto Nathan Rogers,
cioè quel gruppo di architetti milanesi accomunati, come dice lo stesso Albini,
dalla “linea metodologica razionale proposta, in termini nuovi e poetici, dal Movimento Moderno”.
A Venezia, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 1954-55,
Albini tiene la prolusione intitolata Le mie esperienze di architetto nelle esposizioni in Italia ed all’estero,
prolusione in cui illustra i motivi dominanti della sua “arte del porgere” gli oggetti nello spazio.
“Occorre – dice Albini – che l’invenzione espositiva attiri nel suo gioco il visitatore;
occorre che susciti attorno alle opere l’atmosfera più adatta a valorizzarle, senza tuttavia mai sopraffarle.
L’architettura deve farsi mediatrice tra il pubblico e le cose esposte,
deve dare valore all’ambiente come potente elemento di suggestione sul visitatore”.
Ne consegue così la definizione dei mezzi per realizzare questa arte del porgere.
Secondo Albini: “Per raggiungere questo risultato infatti
bisogna (...) ricorrere a soluzioni spaziali piuttosto che a soluzioni plastiche:
bisogna creare spazi architettonici, o sottolineare quelli esistenti, legandoli in un’unità assoluta con le opere esposte.
È mia opinione – conclude Albini – che sono proprio i vuoti che occorre costruire, essendo aria e luce i materiali da costruzione.
L’atmosfera non deve essere ferma, stagnante, ma vibrare,
e il pubblico vi si deve trovare immerso e stimolato, senza che se ne accorga”.
Ecco, queste parole sono importanti per cogliere i migliori esiti del lavoro di Franco Albini,
un lavoro fondato sul complesso intreccio tra l'abitare e l'esporre e risolto nella messa in scena di “spazi atmosferici”
in cui la dimensione onirica trasfigura la realtà della storia,
secondo un metodo progettuale che l’architetto mantiene coerente durante tutta la sua carriera.
Albini affronta i temi dell’abitare partendo dai problemi quotidiani
e propone soluzioni che, avvalendosi di tecniche e materiali all’avanguardia, disegnano figure dense di suggestioni poetiche,
spesso in affinità con le sperimentazioni condotte nell’allestimento delle mostre e dei padiglioni fieristici.
Nella spazialità albiniana gli oggetti, sospesi tra luminose composizioni cromatiche,
traducono poeticamente i segni del tempo e aprono le vie della creazione del nuovo.
Lo “stile di Albini” è coerente, rigoroso, quasi maniacale nell’attenzione riservata allo studio del dettaglio,
ma nel contempo suscita sempre nuove emozioni con sorprendenti tracce che marcano lo spazio.
La peculiarità di questa condotta è radicata nel periodo della formazione, nella Milano degli anni Trenta:
l’Albini “razionalista”, cresciuto nell’ambiente della rivista “Casabella”, quella diretta da Edoardo Persico e Giuseppe Pagano,
non dimentica infatti quello “novecentista”, che subito dopo la laurea, nello studio di Gio Ponti,
si confronta con la tradizione classica e la sapienza artigiana dei mobilieri lombardi.
Sono gli stessi nuovi maestri di Albini a segnalare, nel giovane architetto, i segni di una precoce maturità stilistica.
Sentiamo ad esempio Edoardo Persico, che nel 1932 usa una definizione, quella di “razionalismo artistico”,
che con un ossimoro lascia intendere il particolare percorso intrapreso dal giovane architetto "brianzolo".
Mentre Giuseppe Pagano, qualche anno più tardi, sempre sulla rivista “Casabella”, testimonia anch’egli la presenza di una felice “razionalità artistica”,
nello scritto che sulla rivista presenta la villa Pestarini a Milano, la prima casa costruita da Albini.
L’opera di Franco Albini, capace di coniugare la poeticità della vita e la realtà sociale,
diventa così una bandiera per la Scuola di Milano e per l'architettura moderna italiana:
la sua impronta caratteristica è una silenziosa eloquenza,
nella quale convivono la razionalità con il sogno, il metodo con l’invenzione, la misura con la sorpresa.
Su questa traccia, nelle lezioni che seguono,
svolgeremo il filo cronologico delle sue più significative opere, invitandovi a coglierne la straordinaria e poetica bellezza.